“E’ buffo. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, finisce che sentite la mancanza di tutti.” J. D. Salinger

19 marzo 2011

Cuore Nero (racconto)

La città è fredda, di lunedì notte. Quando ti aggiri per le sue strade deserte, illuminate dalla spettrale luce dei lampioni, coi grigi palazzi che si innalzano verso il cielo come tetre torri di Babele, ti senti veramente come se fossi l’unico essere umano presente sulla faccia della Terra. Era così per noi, quella sera: per me, Kikko e Raffa. Ci sentivamo come tre fantasmi condannati a vagabondare per l’eternità tra le lapidi di un oscuro cimitero sperduto nel nulla.
Gli altri erano rimasti al pub, ad affogare i loro problemi ed il loro odio nel mare buio della Guinness. Ma per noi non era sufficiente. Avevamo bisogno di qualcosa di più eccitante per sfogare il nostro rancore.
Ci aggiravamo per la periferia coi nostri anfibi dalla suola rinforzata che pestavano rabbiosamente sull’asfalto a ogni passo. I pochi individui che ci incontravano cambiavano rapidamente lato del marciapiede e tenevano gli occhi incollati al suolo, cercando di non incrociare il nostro sguardo. Le nostre teste rasate e la piccola svastica nera tatuata sotto l’orecchio insieme alla scritta “Cuore Nero” ci identificava per quello che eravamo: naziskin. Ma quella notte non eravamo semplici naziskin a zonzo. Eravamo dei giovani neonazisti alla ricerca di una preda.
La trovammo in breve tempo, appena dopo aver girato l’angolo e aver imboccato uno stretto vicolo di periferia dove la puzza di immondizia e di piscio regnavano incontrastate su qualsiasi cosa. Il marciapiede era costellato di cicche di sigarette e cartacce. Ma l’immondizia più lurida se ne stava adagiata sui gradini che salivano verso il portone di un palazzo.
Il ragazzino nero se ne stava lì seduto, infagottato in uno spesso giubbotto. Teneva le mani strette tra le gambe, strofinandole per evitare che il freddo della notte gliele congelasse. Aveva un paio di auricolari infilati nelle orecchie e stava ascoltando a tutto volume musica rap da un lettore cd. Non ci sentì nemmeno arrivare. Non aveva più vie di fuga. Era spacciato.
Raffa mi diede una gomitata nel fianco e, sogghignando, mi indicò il negretto. Io feci un cenno affermativo con la testa. Era talmente preso dalla sua merdosa musica negra che non si accorse di noi finché non ci parammo di fronte a lui e Kikko gli strappò via gli auricolari dalle orecchie, tirandoli per il cavo.
«Ciao negro».
    Alzò lo sguardo e ci osservo in viso. Doveva avere 16 anni. Vidi il terrore impadronirsi dei suoi occhi scuri e congelarlo dentro. Sapeva che non se la sarebbe cavata con una stretta di mano.
«Hai una sigaretta?» gli chiesi, guardandolo disgustato.
Lui abbassò gli occhi alla strada. «N-no, non fumo… Mi… mi dispiace…».
«Guardaci in faccia quando ti parliamo!» lo aggredì Kikko, afferrandolo per il colletto del giaccone. Il lettore cd sfuggì dalle mani del ragazzo nero e si schiantò al suolo, aprendosi in due. «E ora, come la mettiamo? Il mio amico aveva voglia di fumare. Mi sa che dovrai sganciargli un po’ di soldi per comprarsi un pacchetto».
Gli occhi del ragazzino saettavano dai nostri visi di pietra alla strada alle nostre spalle. Non era più un essere umano. Era solo una preda braccata che è stata chiusa in un angolo dai suoi aguzzini e che cerca disperatamente un modo per uscire tutto intero da quella brutta situazione. Ma era tutto inutile. La sua disperazione non faceva che alimentare il nostro odio, come benzina gettata sul fuoco. Nel mondo professato dall’ideologia in cui credevamo non c’era posto per feccia come lui.
«Io… io non ho niente… Vi prego, lasciatemi andar…».
Il pugno di Kikko lo colpì al costato prima che potesse finire la frase, mozzandogli il respiro in gola  con un gemito soffocato. Raffa lo colpì al volto, schiacciandogli il labbro inferiore contro i denti. Il sangue gli schizzò allegramente sul giubbotto, come una pioggia vermiglia. Kikko lo scagliò al suolo e, appena toccò terra, gli tirai un calcio al corpo con la punta dura dei miei anfibi. Sentii le sue costole incrinarsi all’urto.
«Non hai soldi, eh?» lo apostrofò Raffa, incombendo su di lui «Tu e i tuoi simili dalla pelle color merda venite a casa nostra, mangiate sulle nostre spalle e poi non avete i soldi per pagarci un fottuto pacchetto di sigarette! Dove credete di essere, nel Paese della Cuccagna?». Sottolineò le sue parole con un secondo calcio al fianco del ragazzino.
Il negro era ora accasciato sul marciapiede lurido, tremante e raggomitolato su sé stesso per cercare di proteggersi dagli altri nostri colpi che sapeva sarebbero arrivati. Grossi lacrimoni silenziosi gli scivolavano sulla pelle bruna. La bocca era contratta in una smorfia di dolore, piena di grumi di sangue.
«Vi prego… Non ho sigarette… Non fumo…» biascicò.
Io e i miei amici ci guardammo e un sorriso divertito ci attraversò il viso. I negracci avevano veramente il cervello limitato come si diceva. Non ci arrivava a capire che non ce ne fregava niente delle sigarette. Nessuno di noi tre fumava. Volevamo solo un pretesto per fargli rimpiangere il giorno in cui la sua testolina aveva fatto capolino dalla lurida figa negra di sua madre.
Gli affibbiai un altro calcione. «Non ti abbiamo dato il permesso di parlare. Le merde inferiori come te dovrebbero imparare a starsene al loro posto». Alzai il piede e gli schiacciai violentemente la suola del mio Doc Marten sul viso. Una, due, tre volte. La cartilagine nasale si sfasciò come cartapesta. Un denso e caldo fiotto di sangue schizzò fin sul muro dell’edificio poco distante.
«Oh, ma guarda un po’! Hanno il sangue rosso come il nostro!» esclamò con finto stupore Raffa. Rise della sua battuta.
La nostra vittima ora piangeva rumorosamente, tirando su dal naso ad intervalli regolari e singhiozzando disperato. Il suo viso sembrava il volto di una delle figure di “Guernica”, il celebre quadro di Picasso. Il naso era gonfio e violaceo, piegato quasi del tutto verso sinistra. La bocca era ormai solo una massa informe di sangue e del muco che gli colava dal naso. Gli occhi erano infossati, contornati da lividi violacei. Tossì e sputò fuori un frammento di dente.
Kikko lo osservò disgustato. Gli sputò addosso e gli disse: «Mi fai schifo, pelle merda. Ci piscerei addosso, a tutti quelli come te». Lentamente, in un gesto quasi plateale, abbassò la zip dei jeans . Si calò le braghe e i boxer e si prese l’affare in mano. Con un sogghigno, iniziò a urinare. Vedemmo il suo piscio piovere sul volto brutalizzato del ragazzino e mischiarsi con il sangue ed il muco, entrargli nelle narici e filtrare tra le labbra maciullate. Ridemmo. Ridemmo alla vista del nostro camerata che pisciava in faccia a un povero ragazzo di colore che giaceva a terra pesto. Nemmeno noi tre eravamo più esseri umani. Eravamo diventati bestie assetate del dolore e dell’umiliazione che potevamo infliggere alla nostra vittima. Non era più una questione di ideologie o di razzismo. Era una questione di puro sadismo, di crudeltà, di godere del male inflitto a un nostro simile.
Da terra, il negretto biascicò qualcosa tra i denti fratturati.
«Cos’hai ancora da parlare, rifiuto umano?» gli chiese Kikko, riallacciandosi i pantaloni.
«Spero… spero che moriate… » mormorò tra le lacrime, il sangue e il piscio «Spero che qualcuno vi uccida… Che vi prenda e vi tagli la gola… Che vi sgozzi come le bestie che siete…».
Ci scambiammo delle occhiate incredule.
«Come come come?» chiesi, piegando leggermente la testa verso di lui «Potresti ripetere? Credo di non aver sentito bene».
Il negro tossì di nuovo e un altro getto di sangue misto a bava gli schiumò da un lato della bocca, scivolandogli lentamente lungo la guancia.
«Mi hai sentito bene… Spero che un giorno… qualcuno ve la faccia pagare… per tutto quello che mi avete fatto… e che avete fatto in passato ad altre persone che non vi avevano fatto niente di male… Siete solo… degli sporchi razzisti schifosi…».
Nel vicolo era calato un silenzio carico di stupore e tensione.
«A quanto pare, la lezione di galateo non è stata recepita a dovere…» sibilai tra i denti come un serpente velenoso «Non hai ancora capito che devi stare al tuo posto, insieme all’altra immondizia…».
Iniziai a tempestarlo di calci al torace. Sempre più forte. Ad ogni colpo aumentavo la potenza e scaricavo la mia furia sul ragazzino di colore. Sentivo il suo corpo sussultare sotto il cuoio duro dei miei anfibi. «Crepa, negro!» gridavo ad ogni calcio. Aveva osato sfidarci, mancarci di rispetto. Le sue parole avevano fatto nascere dentro di me una creatura famelica che non aveva nessun rimasuglio di umanità: un mostro sanguinario, che si nutriva degli orrori che infliggeva ad un altro individuo. Il mio odio era montato a un livello del quale non conoscevo neanche l’esistenza, un livello che era rimasto nascosto nel mio inconscio in attesa di essere risvegliato e scatenato da quelle parole di accusa. Parole che mi avevano toccato nel vivo, incolpandomi di essere solo un bullo prepotente, una persona senza nessun valore, che se la prendeva con gente indifesa per sfogare il suo sadismo. In parole povere, quel nero aveva accusato me di essere una razza inferiore non per il colore della mia pelle, ma per quello che avevo dentro il cuore. Un cuore nero, marcio e buio come l’Inferno, pieno di sentimenti terrificanti; come terrificanti erano gli ideali in cui credevo.
«Crepa, crepa, crepa! Fottuto negro!» continuavo a urlare, gli occhi fuori dalle orbite, senza smettere di sferrare calci. Uno schiocco sinistro si sommò alle mie grida: le costole del negro che si spezzavano come ramoscelli sferzati da un vento tempestoso.
All’improvviso, sentii delle braccia cingermi attorno alle spalle e trascinarmi indietro di forza. Sempre scalciando, lottai per liberarmi da quella presa di ferro. Mi divincolai e mi voltai di scatto, pronto a colpire quel bastardo che voleva impedirmi di dare al negro la lezione che si meritava. Mi fermai quando vidi il volto di Kikko, bianco come un cencio, deformato dallo sgomento e dalla paura. Era stato lui a fermarmi. «Sei impazzito?!» mi urlò in faccia, afferrandomi per il giubbotto «Vuoi ucciderlo?!».
Guardai il ragazzino nero. Era ancora a terra, raggomitolato su sé stesso, come un informe ammasso di stracci. Era immobile, tranne per qualche tremito convulso che ogni tanto gli attraversava il corpo, facendogli fremere le membra. Aveva il viso schiacciato al suolo. Ringrazio Dio per questo, per non essere stato costretto a osservare il suo viso in quel momento.
Raffa, a un paio di metri da noi, aveva gli occhi sbarrati e osservava la scena come se si fosse reso conto di dov’era solo in quel momento. Il suo sguardo terrorizzato saettava dal corpo del ragazzino riverso al suolo a me e Kikko. «Cristo… Che hai fatto?» mormorò, le labbra che tremavano visibilmente «Cristo Santo… Lo hai ammazzato… Lo hai ammazzato!».
Quelle parole mi colpirono come una freccia ghiacciata dritta al cuore. «Piantala di dire stronzate, Raffa! Gli ho solo tirato qualche calcio!». Ma la mia voce aveva una nota strana, angosciosa, che mi faceva paura. Come se stessi cercando di convincere più me che lui di quello che dicevo.
Ma Raffa sembrava non avermi neanche sentito. Continuava a mormorare tra sé e sé: «Mio Dio… Il petto… il petto non si muove più… Non respira più… Mio Dio…».
Kikko mi strattonò nuovamente per il giubbotto. «Che cosa cazzo ti è passato per il cervello?! Dovevamo solo dargli una lezione, una bella ripassata, non ridurlo in fin di vita!» sbraitò, come se gridarmi addosso in quel modo potesse servire a far tornare indietro il tempo.
Stavo per urlargli di smetterla, che nessuno era mai morto per aver preso un po’ di botte, quando un ululato squarciò il silenzio della notte. Una sirena si stava avvicinando a dove eravamo noi. Qualcuno dei residenti doveva aver sentito le grida del nero mentre lo aggredivamo e sembrava finalmente essersi deciso a chiamare la polizia.
Raffa sobbalzò, come se si fosse appena svegliato da un sonno profondo. Ci lanciò un ultimo sguardo terrorizzato, poi si voltò e cominciò a scappare, senza più dirci una sola parola. Kikko invece, sempre tenendomi agguantato per il mio bomber nero, avvicinò il suo viso al mio e mi sibilò, guardandomi dritto negli occhi: «Io non ci vado in galera per un pezzo di merda come te. Fai il mio nome agli sbirri e ti faccio fare la fine del negro». Appena finito di parlare, mi colpì con un montante allo zigomo sinistro. Non lo vidi neanche arrivare. Andai giù sul marciapiede come un sacco di patate. Intontito e con la vista annebbiata, vidi Kikko fuggire sulla scia di Raffa.
Cercai disperatamente di rimettermi in piedi, scuotendo la testa per cercare di scacciare la bruma che mi offuscava la testa. Le gambe minacciavano di tradirmi ad ogni movimento, ma riuscii a tenermi saldo su di esse. Il suono della sirena era sempre più vicino e il suo suono senz’anima mi riempiva le orecchie, colmandomi il cuore di disperazione.
Dovevo scappare, andarmene da lì prima che mi trovassero a perdere tempo di fianco al corpo di un ragazzo che non sapevo nemmeno se respirasse ancora. Con la mia coscienza avrei fatto i conti più tardi. In quel momento, l’unica cosa che mi premeva era mettere più isolati possibili tra me e il luogo del pestaggio. Tenendomi rasente ai muri, per timore che le ginocchia mi cedessero senza preavviso, iniziai a camminare velocemente nella direzione opposta da cui erano fuggiti i miei compagni.
Quando arrivai alla fine della strada, mi sembro di aver recuperato quasi completamente il senso dell’equilibrio e mi azzardai ad accennare una corsa. Non mi ero sbagliato. Le gambe mi reggevano in piedi.
Cominciai a correre sempre più forte, mentre il grido delle sirene si intensificava, sempre più vicino. Pareva venire da ogni parte, come se mi circondasse.
Corsi, corsi a perdifiato senza neanche guardare dove andavo, precipitandomi a testa bassa nelle prime vie che intravedevo. Non ho idea di quanta strada percorsi. Possono essere chilometri, come potrebbero essere anche solo qualche centinaio di metri. Non lo ricordo.
Ad un tratto, mentre passavo di fronte alla recinzione che delimitava il cantiere di un palazzo in costruzione, sentii una fortissima nausea attanagliarmi improvvisamente le viscere e costringermi ad arrestare la fuga. Mi piegai in due e vomitai sul marciapiede tutto quello che avevo nello stomaco.
Mentre mi pulivo la bocca con una mano tremante, la mia mente cominciò a divagare e per la prima volta tornò a quello che era successo quella sera, al viso martoriato del ragazzino nero, e ciò che avevamo
(che avevo)
fatto mi fu improvvisamente chiaro: avevo probabilmente ucciso un altro essere umano. Avevo fermato il suo cuore. Una sensazione orrenda, che mai avevo provato prima, mi attraversò tutto il corpo.
Fu in quel momento che accadde.
Non sapevo cosa mi stesse succedendo. Sentii un qualcosa di freddo insinuarsi all’interno del mio petto, come un tentacolo gelido, e ghermirmi il cuore, un artiglio infernale che tirava e tirava cercando di sradicarlo dalla mia cassa toracica, come un bulletto che cerca di strappare un giocattolo dalla stretta serrata di un bambino in lacrime.
Il mio cuore batté ancora un singolo colpo. Lo udii chiaramente dentro le mie orecchie. Un unico, solitario “tu-tum”. Poi si fermò.
Muoio” pensai.
Le gambe mi si ammosciarono come se fossero fatte di argilla. Quando il mio corpo toccò terra, crollando come un castello di carte investito da un vento tempestoso, i miei occhi erano già inondati dall’oscurità, nonostante le mie palpebre fossero ancora ben spalancate.
Muoio.



La luce mi feriva gli occhi in maniera insopportabile, come tante piccole schegge di vetro che mi penetravano nel bulbo oculare, quando riaprii gli occhi dopo non so quanto tempo. Cercai di alzare la mano per cercare di schermarmi il viso da quell’assalto luminoso ma il braccio mi sembrava pesantissimo, impossibile da muovere. Inerte e attraversato dai formicolii, non rispondeva ai miei comandi e per il momento pareva inservibile.
Ma almeno sentire la luce che mi trafiggeva le pupille e il torpore che mi pervadeva le membra mi servì a capire che, per qualche motivo, ero ancora nel mondo dei vivi. Quel malore che mi aveva assalito il cuore, qualsiasi cosa fosse, non era stato sufficiente a mettermi KO per l’eternità.
Pian piano, la testa cominciò a farmi meno male e riacquistai un minimo di percezione sensoriale. I miei occhi iniziarono ad abituarsi alla luce che mi sovrastava. Non avevo idea di quanto tempo erano rimasti serrati.
All’improvviso mi resi conto di un bruciore lancinante che mi incendiava la parte sinistra del petto. Era come se una lama rovente mi avesse trafitto e fosse rimasta lì conficcata. Percepii un qualcosa che mi copriva il viso e udivo un sibilo alla mia destra, come il rumore sommesso di un macchinario. Un altro suono, simile a un bip, proveniva dalla parte opposta del luogo in cui mi trovavo. Un telefono squillò in lontananza.
Mi sforzai di schiudere gli occhi, nonostante la luce. Vidi che mi trovavo in una stanza e che ero disteso su di un letto. Il mio corpo era nudo e coperto da un lenzuolo bianco. Man mano che i miei sensi si risvegliavano, il dolore al petto si faceva sempre più lancinante. Avevo sul viso una maschera di plastica per respirare, collegata al macchinario che emetteva quel buffo sibilo. Nel braccio sinistro mi era stato infilato il sottile ago di una flebo. Il bip proveniva invece da un altro macchinario alla mia sinistra, dove su un piccolo schermo scorreva quella che doveva essere la mia frequenza cardiaca. Sopra di me, appeso al soffitto, torreggiava un lampadario acceso.
Ero vivo! Vivo!
Nemmeno per un istante mi tornò in mente il ragazzo nero e quello che gli era successo.
Di fronte al mio letto vi era una porta che era stata lasciata leggermente aperta. Vidi dietro di essa due uomini vestiti con un camice bianco che parlavano tra loro. Tendendo l’orecchio, riuscii a udire la loro conversazione.
« Come è andato il trapianto?» chiese quello più giovane.
« Almeno per il momento, l’organismo pare aver reagito bene all’operazione. Non vi sono segni di rigetto dell’organo impiantato».
« Ho sentito qualcuno parlarne, stamattina. Che cosa gli è successo?».
« Non lo so. Non siamo riusciti a capirlo. A quanto pare, il cuore gli si è fermato all’improvviso, senza nessuna causa apparente. Come se fosse stato colpito da un infarto fulminante. Tranne per il fatto che non ha avuto un infarto, ha semplicemente smesso di funzionare. Sembra incredibile. Fortunatamente per lui, una volante della polizia che era stata chiamata per un’aggressione nelle vicinanze, lo ha trovato in fin di vita riverso sul marciapiede e lo ha portato fin qui d’urgenza».
« E siete riusciti a trovare un donatore per un trapianto così urgente? È pazzesco»
« Sarebbe persino buffa come storia, se non fosse così tragica. Il donatore del cuore è stata proprio la vittima dell’aggressione per cui era stata chiamata la polizia che lo ha trovato. Sembra quasi paradossale».
« La vittima di un’aggressione?».
« Sì. Un ragazzino di colore pestato a morte da un gruppo di balordi. Quel cuore gli ha salvato la vita».
Un cuore nero.
Nero come il profondo della mia anima.



Fine

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